Qualche giorno fa si è concluso "Il più grande pasticcere" (
Raidue).
Partito in sordina, all'inizio sembrava la brutta copia di "Bake Off" (
Real Time): una manciata di concorrenti, due/tre giudici cattivi come la pece, una conduttrice inutile, il format sembrava lo stesso, solo senza quei due o tre milioni di euro spesi in pubblicità di ogni tipo che ci hanno fatto sentire un po' perseguitati da BakeOff (internet, free press, giornali, fermate della metro, app sullo smartphone...).
E infatti, insieme al gruppo d'ascolto "Pendolari vittime di Trenord e dei suoi ritardi cronici" l'abbiamo liquidato dopo due puntate perché brutto: i dolci prodotti sembravano più opere d'arte che invitanti merende che ti scofaneresti come se non ci fosse un domani.
Con il passare del tempo, e delle serate invernali in cui non c'erano alternative reali in tv, un po' per inerzia e un po' per golosità (in fondo si tratta sempre di dolci, il mio è un dovere scientifico), l'ho seguito puntata dopo puntata, e sono arrivata alla fine.
La storia non è migliorata, ma credo di avere colto il punto. Quella che sembrava una differenza banale da Bake Off, una scappatoia per non beccarsi una denuncia per plagio, si è rivelato un elemento fondamentale per la morale. Il punto è che i concorrenti erano dei
professionisti.